Il secondo giorno di novembre è il giorno in cui si commemorano i defunti.
Per molto tempo questa festività mi ha creato imbarazzo, non sapendo bene cosa volesse dire celebrare la memoria di qualcuno che non c’è più.
Ricordo mia madre versare lacrime silenziose sulla tomba della propria ed io poco distante, bambina, con uno strano senso di fragilità e impotenza, partecipe di un dolore da cui tuttavia rimanevo esclusa. Non mi sedevo sulla tomba della nonna, non volevo e mia madre non insisteva.
Non conoscevo la perdita, non ancora. Qualcosa mi costringeva a rimanere lontano, a osservare da spettatore.

I defunti che si commemoravano a quel tempo in famiglia erano per me degli sconosciuti, sconosciuti che pure si accaparravano buona parte dell’amore che da piccola pretendevo per me soltanto.
Come era stato quel fratello della nonna che tutti ricordavano tranne me, il cui nome era capace di spegnerle il sorriso e di dipingerle un’espressione distratta, inaccessibile?
Oppure chi chi era stata la donna a cui gran parte del cuore di mia madre era riservato? La scrutavo timidamente nelle fotografie, indagavo la sua bellezza che tormenta e i suoi occhi tristi che guardano lontano. Rimuginavo senza posa sui commenti di chi l’aveva conosciuta nel tentativo di decifrarla e farla mia.
«Buona, dolce», dicevano, «troppo», aggiungevano.

Il due di novembre, tradizionalmente, sia in Italia che in Francia, ci si reca al cimitero a far visita a chi non c’è più. Adesso che bambina non sono più, questa usanza mi mette altrettanto in imbarazzo.
Per via delle mie ricerche, bazzico cimiteri con la frequenza con cui entro in caffé e bistrot, e dunque la tradizione risulta per me ben poco eccezionale. Tanto più che i miei cari non sono sepolti in Francia.
Alla fine, è stata la vita con le sue prove a insegnarmi come celebrare la morte, non la tradizione della mia terra o della mia famiglia.
Anzi, per la precisione fu una terra remota a iniziarmi al culto del morte, ad aiutarmi a elaborare il mio modo di onorare gli antenati, un rito che da allora ripeto e trasformo ogni anno.

Come avviene in molte parti del mondo, anche in Messico la fine di ottobre corrisponde al periodo dell’incontro coi defunti, delle memorie famigliari, dell’assottigliarsi del velo tra i mondi.
Per la precisione, il primo novembre è il giorno dedicato a Los Angelitos, gli spiriti dei bambini defunti, mentre il giorno seguente è il vero Dìa de los Muertos, il giorno in cui i trapassati vengono celebrati.
In sostanza, dalla notte del 31 ottobre le celebrazioni hanno inizio, benché la parata carnevalesca di Ciudad de México, resa celebre da un film di James Bond, non sia che un’invenzione.
Poco importa, il culto della morte messicano rimane intonso nella sua poeticità, peraltro molto ben trasmessa dal recente film Coco, uscito nell’autunno 2017.

Nel caso non si fosse ancora capito, non credo al caso, né alle coincidenze prive di senso. Molto tempo fa scelsi di leggere la vita come una poesia di Emily Dickinson, con simboli e messaggi a mio uso esclusivo. La scelta mi ha fatto sempre del bene.
Nell’ottobre 2017 mi trovavo proprio in Mexico. Credevo di partire per un viaggio, invece mi preparavo a conoscere il volto di Morte. Nulla di tutto ciò era minimamente previsto, ma Morte non bussa, entra nell’esistenza a passo di danza, come se i tuoi giorni non avessero atteso altri che lei, un po’ come fa Amore.
Conobbi la perdita in quei giorni strani, magici, fatali: di colpo, mi ritrovai seduta sulla tomba della nonna accanto a mia madre, finalmente degna di partecipare al suo dolore.
A un cuore in pezzi
Emily Dickinson
Nessuno si avvicini
Senza l’alto privilegio
di avere sofferto altrettanto.
E se la Morte aveva scelto di colpirmi proprio allora, quando i miei passi si muovevano su una terra sconosciuta intrisa d’ombra e di sangue, a migliaia di chilometri da casa, il rimedio d’emergenza poteva trovarsi solamente lì.

In Messico a ottobre si erigono altari in ogni camposanto, chiesa, casa, negozio, ufficio, strada o vicolo.
Sono le famose ofrendas, le offerte ai defunti recanti i loro migliori ritratti, circondati da montagne di fiori giallo-arancio – il cempasúchil, il fiore dei morti – candele, ciotole di copale fumante, l’incenso che attira gli spiriti, e infine tante, tante vivande tra cui sorridono decine di calaveras, le teste di morto messicane dal sempiterno sorriso.
L’impressione è quella di un banchetto, allestito coi piatti preferiti dei cari scomparsi e i dolci tipici della stagione, come il delizioso Pan de Muertos.
A terra, un sentiero di petali di cempasúchil aiuta le anime a ritrovare la strada di casa e la ofrenda a loro dedicata.
All’accensione di candele e copale segue un momento di raccoglimento con lo spirito degli scomparsi, poi i vivi si riuniscono per bere una tazza di cacao fumante, mangiare dolci e raccontarsi aneddoti di famiglia.
Ebbi l’immensa fortuna di venir ospitata in una di queste riunioni.
«Che strano – ricordo di aver pensato – sembra Natale».

Fino a quel momento avevo pensato alla Morte come a qualcosa di definitivo, irrimediabile.
Fu il Messico a suggerirmi l’idea che qualcosa si potesse fare sempre, che è bene farlo e che anzi va fatto.
Le anime hanno bisogno di essere guidate nel loro viaggio. Se i vivi non sanno come ricordarli, si perdono.
Dimenticati.
Non siamo solo noi ad aver ancora bisogno di loro.
Quando ho acceso la prima candela, ho compreso che sentirmi utile era ciò volevo di più in quel momento.
Un gesto d’amore per loro e per me.
Celebrare i miei defunti in quell’occasione, alla maniera messicana, mi ha aiutato a fare un passo verso di loro, e ha avvicinato loro a me.

Dopo quattro anni, ottobre è finito di nuovo.
Non c’è il fragrante spirito del Messico ad accompagnarmi questa volta, non il cacao, le montagne di cempasúchil e nemmeno il Pan de Muertos, ma c’è ancora il bisogno di sentirmi utile e di far conoscere a chi non c’è più, a chi non ho nemmeno mai conosciuto e grazie ai quali esisto, i passi più importanti che ho compiuto per me… E per loro.
Ho preso un bouquet di dalie color arancio, un po’ di copale scovata in un negozio di incensi a cui ho aggiunto della mirra, perché in casa si tramanda come essenza cara ai defunti.
I ritratti sarebbero stati troppi da esporre, così ho deciso di comporre un album di fotografie con nomi, date, aneddoti e ricordi. Ci ho messo molto tempo, ma ogni secondo è stato speso con coscienza, ogni nome o data appuntanto con cura, perché nessuno si offenda.
Invece del cibo, che i gatti avrebbero saccheggiato senza riguardo, ho aggiunto oggetti appartenuti a chi non c’è più, come la collana che mia madre portava sempre o la mitica Exakta del nonno, la macchina fotografica da cui non si separava mai.
Infine, come oggetto che rappresenta l’anno ho messo il libro delle memorie di mia prozia, Cornelia, “Vivere, nonostante tutto”.
Una memoria di famiglia tanto marcante ha trovato il posto che le era dovuto ed è bene che gli antenati lo sappiano. Spero che lo raccontino a tutte le povere anime di Monte Sole e ai parenti che non ho potuto conoscere.

Nell’accendere le candele, per un istante, mi son sentita parte di una famiglia immensa, i cui membri sorridono di un sorriso già visto, amico, familiare, un sorriso di calavera al profumo di spezie e di cacao.
Buona Festa dei Morti a tutti. Festeggiateli, non piangeteli soltanto.
Rispondi