«Devono sapere quel che ho passato, sapere che la guerra è così».
Le parole di Cornelia mi volteggiano in petto come rondini. Tentano col loro grido di sciogliere il gelo dell’avvilimento che mi tormenta da mercoledì, proprio dopo che – neanche a farlo apposta – avevo raccontato la sua storia a dei giovani studenti.
Mi chiedo cosa provi davvero dietro alle parole che va ripetendomi al telefono, scuotendo il capo:
«Hai visto? Non si può…È terribile… Una catastrofe».
Non trova le parole, ma coi lunghi silenzi e lo sguardo triste dice molto, quello stesso sguardo che faticavo a sostenere durante le nostre interviste per la stesura delle sue memorie.
Questa volta però scorgo del nuovo, un rammarico diverso che si aggiunge al lutto perpetuo in cui l’ha costretta la guerra. Si dispiace per me, per chi soffre adesso, per chi va verso un domani incerto.
Arranco in questa atmosfera dolorosamente familiare, evocata tante volte con lei, cercando di definire il mio ruolo oggi, rispetto al suo di ieri, così remoto, così presente.
Penso ai giovani a cui ho detto che la responsabilità di ideare un mondo nuovo è nostra, ce l’abbiamo addosso.
È di chi ha il coraggio di guardare nel profondo delle ferite e si rompe il cuore e la testa nella ricerca di un modo per trarne forza, invece di qualcuno da accusare, o di rancore da ravvivare.
Sappiamo tanto che i nostri nonni, bisnonni e prozii non sapevano.
La pace ci è stata affidata da chi ha sofferto prima di noi, e quando mi chiedo che cosa ne abbiamo fatto, d’improvviso torna a mancarmi il coraggio di guardare Cornelia negli occhi.
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