Riflessione sul ruolo non scritto dei discendenti
Ieri mattina mi ha scritto una lettrice speciale, una persona che fino a due anni fa non sapeva di essere la discendente di una vittima degli Eccidi di Monte Sole (Marzabotto, autunno 1944).
La lettura di “Vivere, nonostante tutto” l’ha condotta ad onorarmi con questa particolare confidenza.
Non è la prima volta che accade una cosa simile e continuo a riflettere sulla posizione delicata in cui mi trovo oggi, dopo la pubblicazione delle memorie di mia prozia, Cornelia Paselli, testimone dei tragici eventi che si verificarono dell’autunno del ’44 sull’Appennino bolognese.
Non sono preparata a ricevere le confidenze preziose di certi lettori, eppure non voglio sottrarmi.
I parenti e i discendenti delle vittime sono consapevoli dalla responsabilità che su di loro grava e che non di rado viene percepita come qualcosa di troppo grande. La maggior parte, va detto, desidera assegnare il posto dovuto a verità troppo a lungo taciute. Un posto in piena luce.

Non è un desiderio che costa poco portare nel cuore, ecco perché è tanto importante confrontarsi con qualcuno che si trovi nella stessa posizione.
Il problema è che chi eredita per via famigliare l’ombra di eventi storici traumatici si trova spesso a dover sopportare non solo il peso del dolore, ma anche quello indefinibile del silenzio.
“Non chiedere”, “lasciala in pace”, “non rivangare”… Ammonimenti che, nel mio caso, miravano ad insegnare a una bambina il rispetto dell’altrui dolore.
Poi la bambina è cresciuta e ha iniziato a cogliere in quelle parole una sfumatura di disagio, una tendenza nervosa a rimandare il confronto con la voragine lasciata dal trauma.
Perché accade questo?
Per via della condizione contraddittoria e peculiare del discendente, che eredita un dolore inferto prima che la sua esistenza avesse inizio.
Non è accaduto a lui, ma lo sente, gli appartiene, annidato nelle viscere, nelle carni e nel sangue.
Quando un superstite racconta, nell’ascoltatore si agitano emozioni violente facili da immaginare. Segue poi un forte disagio: come commentare? Che osservazioni o domande formulare, senza risultare superficiali o indelicati?
Per un parente, il disagio nasconde qualcosa di più profondo, di lacerante direi. È la frustrazione di non poter condividere né alleviare un dolore che pure gli appartiene.
I discendenti non erano a Monte Sole nell’autunno del ‘44, ciò nonostante una parte di loro è lassù e vi rimarrà sempre, un frammento di loro che li guarda attraverso gli occhi del testimone, da cui si sentono separati, di cui dubitano di essere degni. Una parte di sé che esisteva prima di loro e che a loro non è dato cambiare. Intoccabile, presente, ingombrante.
Eppure esistono gesti potenti, curativi che solo i discendenti possono compiere.
Non ho apprezzato l’ingombro emotivo dei “non-detti” famigliari fin quando non ho dato voce al silenzio. Ed è accaduto a Monte Sole al fianco di Cornelia, quando abbiamo presentato le sue memorie, il nostro lavoro fatto in casa, come si fanno le cose in famiglia.
Quel giorno ho sentito quanto il silenzio portato da soli possa opprimere.
Il bello di raccontare è che non solo rompe il silenzio, ma richiede di essere in due per lo meno, così il peso si condivide e si fa più leggero. E quel giorno eravamo in tanti.
Dunque – mi sono detta – non posso cambiare ciò che è stato, ma posso pur sempre liberare il passato dal peso di un silenzio durato troppo a lungo. Per infine liberare me stessa.
Il messaggio di cui Cornelia si è fatta esempio vivente è che la vita è sacra e come tale va vissuta, venerata, protetta.
Il mio è rivolto ai giovani, ai discendenti di qualunque famiglia, poiché non esiste famiglia senza ferite, senza “non-detti” o silenzi che opprimono: non chiedete ai vostri parenti di raccontare, offritevi di ascoltare se e quando si sentiranno di farlo. Che sappiano di non essere i soli a portare quel peso di cui non si parla, che anche voi sentite, che sapete senza conoscere fatti e dettagli.
È un aiuto immenso da offrire, un atto di coraggio e di fiducia il cui effetto benefico si apprezza solo col tempo.
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