Chi mi conosce sa bene come non possa impedirmi di rivestire di significati esistenziali anche la cosa in apparenza più stupida. Ebbene, oggi ho riflettuto col mio metodo pesantissimo su un quesito banale che in passato mi ha tormentata non poco.
Riuscire a guardare il proprio ritratto senza provare disagio per alcuni è un’esperienza normale, mentre per altri rappresenta una difficoltà insormontabile. Fino a poco tempo fa, mi annoveravo fra questi e il momento immancabile del “dai, facciamoci una foto” mi dava la stessa gioia di una seduta dal dentista senza anestesia.
È stato necessario attraversare alcuni passaggi della vita che definirei iniziatici per trasformare la repulsione, il fastidio e l’irritazione, in qualcosa di diverso. I nodi da sciogliere sono stati più numerosi e molto più intricati di quanto avessi immaginato, eppure oggi riesco a ricordare le mie debolezze con gratitudine, poiché il primo passo per la costruzione di una forza autentica è riconoscersi fragili.
Solamente dopo ho potuto iniziare a scomporre il fastidio del ritratto isolando una ferita alla volta, per scoprire infine di avere molto da perdonarmi.
Gli eventi esterni, la famiglia, l’educazione, la pressione sociale lasciano tracce indelebili sul bambino che cresce, ma non è stato sufficiente chiamare gli squilibri e le ingiustizie col loro nome per guarire.
Ho dovuto fare ammenda con me stessa per non essermi difesa quando ne avevo l’occasione e per essermi fatta promesse che poi ho dimenticato.
Non era vergogna quel che montava davanti alle fotografie, ma rancore, una sorta di senso del tradimento. Nei sorrisi forzati, nelle pose ricercate senza esito alcuno, apprezzavo inconsciamente la distanza tra la persona che ero è quella che avrei voluto essere.
Ciascun profilo, ritratto, selfie o foto di gruppo celava per me uno spettro, il grido latente del tempo che scorre, l’accusa di trascurare la cosa più importante in attesa di un presunto momento di rivalsa, del giorno del calendario segnato dalla scritta «d’ora in avanti» che, guarda un po’, non arriva mai.
Bloccato in un’immagine, il mio volto era incapace di sfuggirmi, di celare l’amarezza di un’immobilità interna che credevo impotenza, destino, ineluttabile fallimento. Tutto, pur di non ammettere il terrore di avere paura.
Passai dunque dalla tristezza verso “fuori” alla rabbia verso “dentro”, in nome di ogni singola promessa infranta, di un’esperienza rimandata, di un proposito trascurato.
E poi quella rabbia si sciolse di colpo, un giorno come tanti, in occasione di un ritorno a casa, proprio sulla soglia della mia stanza.

Libri da leggere, costumi da finire, maschere da portare in scena, colori da usare, quaderni da riempire, diari da riprendere, viaggi ancora da fare… Sugli scaffali e dentro ai bauli riconobbi lo scorrere di anni di accumulo, il goffo tentativo di chiedermi scusa per il tempo perduto, ceduto, mai recuperato, incapace com’ero di proteggere la mia creatività dal senso di colpa.
La condanna era di famiglia, delle donne soprattutto, troppo spaventate dalla potenza della propria voce per alzarla a dovere.
La notizia è che quando la voce finalmente esce non fa male a nessuno, tutt’altro! Come in un puzzle dove ogni pezzo ha un posto e uno solamente, la nuova nota va a colmare un vuoto che altrimenti sarebbe rimasto silenzio.
Riconoscendomi unica custode della mia unicità, ho iniziato a considerare ogni ritratto come una prova, un’occasione di ascolto, la misura di quanto arrivo ad assomigliarmi ogni giorno di più.
Buon selfie a tutti.
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