[Immagine di copertina articolo: © Giorgia Gordini]
All’inizio di novembre 2020, all’epoca in cui Parigi entrava nel suo secondo, interminabile lockdown, accennai all’intenzione di imbarcarmi in un progetto importante, legato a una storia di famiglia (qui l’ articolo).
Ad oggi, giugno 2021, mentre Parigi ricomincia a vivere e i tavolini tornano a fare la loro ricomparsa sui marciapiedi, il progetto sta per vedere la luce.
La pandemia ha arrestato per un po’ il rumore della vita, ma non di certo la sua essenza ed è con un tempismo perfetto che questa pubblicazione fa la sua comparsa nel mondo, poiché è alla vita invicta che è dedicato.

Cornelia Paselli è mia prozia.
Nel novembre 2020 ha compiuto novantacinque anni e da quando ne aveva diciotto porta un peso difficile da immaginare, quello di sopravvissuta e testimone della strage di civili più efferata del fronte occidentale, compiuta dalle SS tedesche durante la Seconda guerra mondiale.
Gli eventi di cui Cornelia fu testimone investirono la porzione di Appennino bolognese compresa tra i fiumi Reno e Setta, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, e sono noti col termine di strage di Marzabotto, ma la dicitura corretta è eccidi di Monte Sole.

In quel tragico autunno, Cornelia scampò per miracolo al massacro della sua intera comunità. Tra i vari parenti, nel cimitero di Casaglia perse sua madre e due fratellini, Maria e Luigi.
Dopo la strage – “nonostante tutto”, come ama ripetere – costruì a poco a poco una nuova esistenza, a Bologna, dove vive tutt’ora assieme ai suoi figli.
Ma la memoria tornava incessantemente a quell’autunno del 1944 e così, negli anni, il bisogno di testimoniare si fece sempre più pressante.
«Fu un’amica insegnante a convincermi a raccontare la mia storia nelle scuole», spiega Cornelia.
L’incontro con la Scuola di Pace di Monte Sole rese più intenso e costante il suo impegno, divenuto necessario per “provare a dare un senso” a una tragedia… che non ne ha.

La scorsa estate 2020 mi recai in visita da Cornelia, approfittando di una breve pausa concessa dalla pandemia. Durante le nostre chiacchiere, accennai alle mie aspirazioni letterarie e lei mi confidò di avere un libro in sospeso a sua volta, da molti anni.
«Quale libro, zia?»
«Il mio», replicò col suo candore disarmante, indicandomi un quaderno dalla copertina blu. Sfogliando le pagine, la prima cosa che mi colpì fu la grafia curata con cui erano state vergate.
Cornelia aveva iniziato la stesura delle sue memorie, senza poterle terminare a causa dell’artrite che le rende impossibile reggere la penna.
Quel pomeriggio domandai a Cornelia il permesso di fotografare il manoscritto per leggerlo in un secondo momento, desiderando in cuor mio aiutarla, senza aver ancora deciso come.
La narrazione era fresca e genuina come quella di una fiaba, ma oltre a essere incompleta, aveva a bisogno di essere riordinata e ampliata, per rendere il racconto accessibile anche a chi non sapesse nulla dell’eccidio, o che non conoscesse la zona.

(immagine da La Repubblica)
Quasi senza riflettere iniziai il lavoro di riordino e battitura a computer, segnando dove necessario l’aggiunta di una nota, un ampliamento, un approfondimento…
Mi fermai laddove Cornelia aveva sospeso la narrazione e, senza averle anticipato nulla, inviai il testo ai suoi figli perché lo facessero giungere nelle sue mani.
Attesi la sua reazione combattuta tra l’impazienza e gli scrupoli.
Dopotutto, avevo messo mano alla parte più intima e delicata di lei senza il suo consenso, mettendo la massima cura nel tentare di non alterare il suo stile certo, ma pur sempre intervenendo con suggerimenti e correzioni.

Dei presenti nella foto, Leandro fu l’unico a sopravvivere alla strage.
«Lo finiamo insieme!», esclamò finalmente Cornelia al telefono.
Il suo sorriso sfuocato dalla telecamera mi trasmise l’immenso sollievo che quella bozza rappresentava per lei: qualcuno era disposto ad aiutarla a completare il suo progetto.
«Non sai da quanti anni vado dietro a quel libro», aggiunse.
L’inizio dei lavori divenne ufficiale quell’autunno.
Mentre il mondo a poco a poco tornava a chiudersi, io e Cornelia trascorremmo ore al telefono a evocare, senza preferenza alcuna, memorie felici e atroci, trattando ogni ricordo con rispetto, cambiando espressioni, aggiungendo aneddoti, finendo a piangere, poi a ridere e poi di nuovo a piangere nell’arco di manciate di minuti.
Ero sempre io a stancarmi per prima.

Per arricchire di particolari la narrazione, confrontai i ricordi di Cornelia con le interviste che aveva rilasciato in passato e con altre testimonianze di sopravvissuti. Spulciai archivi online, saggi e documentari dedicati alla strage.
Desideravo che ogni riga approvata da lei ricevesse una minima inquadratura storica, necessaria alla comprensione dei fatti.
Durante quella fase, senza che me ne accorgessi, la mia quotidianità si alterò.
Per un periodo, mi parve di convivere con quelle memorie, udivo l’eco delle voci dei sopravvissuti prima di addormentarmi e versavo lacrime dal nulla, perché i racconti si erano a poco a poco trasformati in volti, in sguardi, in temperamenti persino…
Per quanto mi riguarda, quest’impressione di vicinanza è uno degli aspetti più preziosi di tutta l’esperienza di stesura. Ogni reazione emotiva, piacevole o meno che fosse, è stata essenziale per colmare la distanza che esiste tra il ritrovarsi ad essere un’erede della memoria storica e la scelta di esserlo.